martedì 16 aprile 2013

Informare o Diffamare? Diciamo la nostra!







Buongiorno a tutti,

vi contattiamo perchè vorremmo condividere con voi il fastidio provato venerdì mattina leggendo un articolo del Secolo XIX (in allegato). Una pagina intera, pure a colori con tanto di finestra anticipatrice in prima pagina, nella quale la direttrice del Museo del Novecento di Milano sparava a zero sull'Università di Genova, con accuse gravi, ma assolutamente vaghe, volte soltanto a togliersi evidentemente qualche sasso dalla scarpa,  che però si portava appresso da almeno 15 anni.
La signora, intervistata da Anna Orlando (storica dell'arte genovese, molto lontana dal mondo accademico ma molto attiva sul mercato), si laureò a suo tempo a Genova ma non riuscì ad intraprendere la carriera accademica, presumo perchè le fu preferito qualcun altro: lungi da noi descrivere Genova quale paradiso della trasparenza ma siamo davvero stufi di questo modo di infangare senza alcuna preoccupazione di colpire anche coloro che studiano e lavorano con onestà e passione. Chi ci conosce un poco sa quanto siamo spesso critici e a volte refrattari all'ambiente universitario, ma se c'è una cosa che ci sentiamo di difendere dell'università di Genova e in particolare del dipartimento di cui facciamo parte  è il bel clima che si respira e gli ottimi rapporti che vi si possono instaurare.
Abbiamo conseguito a Genova sia la triennale che la specialistica, Valentina poi si è anche spostata a Siena per la specializzazione e vi possiamo assicurare che la differenza c'è, eccome! Abbiamo poi conosciuto altre realtà, direttamente e indirettamente: anche prima di iniziare negli scorsi anni il dottorato, i prof. che ci avevano seguito  (Franchini, Stagno, Magnani, Matteuzzi, Rossi) non ci hanno mai negato il loro appoggio e ci hanno sempre esortato a continuare negli studi.
Vi chiediamo pertanto di considerare la situazione e nel caso siate d'accordo di sottoscrivere la lettera che abbiamo pensato di inviare come risposta al Secolo. Crediamo sia importante far sentire la nostra voce, portare il nostro esempio e non subire passivamente l'ennesimo episodio di cattiva informazione di un giornale che purtroppo è il più importante nella nostra regione!

Vi chiederemmo pertanto, nel caso foste d'accordo con quanto abbiamo scritto nella lettera di risposta in allegato, di inviare una mail a Giacomo (indirizzo poco sotto) con nome, cognome e corso di studi, autorizzandoci a scrivere il vostro nome nel file che VERRA' SPEDITO AL GIORNALE (e quindi forse pubblicato). Sappiamo di chiedervi molto, ma nel caso condivideste questa presa di posizione sarebbe importante partecipare compatti. Sentitevi liberi di far girare questa email a vostri colleghi che non rientrino nel nostro indirizzario, ci farebbe piacere che la cosa avesse maggiore partecipazione possibile. Tuttavia, perchè sia efficace, la risposta deve essere anche rapida. Il tempo massimo entro cui aderire pertanto è MARTEDI' 16 ALLE ORE 23.55, dopo di che invieremo la lettera con le adesioni avute sino ad allora.
Se volete chiederci qualcosa, discutere, dissentire... siamo a vostra disposizione.

Grazie a tutti,

Valentina Frascarolo e Giacomo Montanari

Giacomo: gcm.montanari@gmail.com


Lettera di risposta:

Criticare per costruire

Un quattrin di carta, una penna e un danaro d'inchiostro fanno apparir d'un uomo un mostro.

Che all’interno dei corridoi dell’Università italiana non tutte le pratiche siano trasparenti, non tutti i docenti siano entusiasti e non tutti gli studenti siano ineccepibili pensiamo rappresenti non solo un’ovvietà, ma anche una condizione per lo meno naturale all’interno di una istituzione composta da centinaia di individui. Che l’Università di Genova non faccia eccezione crediamo che sia altrettanto indubitabile e  il fatto che sia necessario e doveroso per chiunque provare ogni giorno a fare “meglio” sotto tutti i punti di vista, anche con la critica netta e decisa, riteniamo pertanto essere un importante presupposto che sta a garanzia della qualità dell’offerta formativa di un istituto culturale dedito all’educazione, all’istruzione e alla ricerca scientifica. Tuttavia, leggere le parole di Marina Pugliese, riportate da Anna Orlando, non fa solo male al cuore per il loro malcelato livore e la manifesta voglia di demolire senza alcuna intenzione “educativa” un intero ambiente, ma ferisce un già precario sistema affondandogli la faccia nel fango con generiche ed infamanti accuse di cui non viene riportata alcuna circostanza e alcuna prova. É questo il modo di “purificare” un mondo dove ci si rammarica (dopo circa 20 anni e aver raggiunto vette professionali per molti giovani, oggi studenti, inarrivabili) di non aver ricevuto stimoli, aiuti, incentivi e supporto? É la terra bruciata il sistema corretto, la panacea universalis che ci serve per “cambiare il sistema”? Gettare discredito non per trarne vantaggio, ma come mero sfogo di una frustrazione irragionevole e incomprensibile (visti i successi della Pugliese di cui la Orlando mette BENE in luce ogni dettaglio) non è solo un atto meschino, ma è anche un danno per chi, come noi e come tanti altri, sta affrontando questo percorso di studi. É un modo per far valere ancora meno agli occhi di tutti una professionalità che molti hanno sudato e stanno sudando non meno delle due dottoresse che si dilettano dalle colonne di questo giornale.
Nel merito poi del “j’accuse” riportato, ci sentiamo in dovere di dissentire fortemente da molto di ciò che è stato detto: se nessuno mette in dubbio che la dottoressa Marina Pugliese possa aver subito i non ben definiti torti a cui accenna, è fuori di dubbio che una generalizzazione onnicomprensiva nell’elevare giudizi di valore così pesanti e malevoli è quantomeno azzardata. Dall’esperienza di molti di noi nell’aver frequentato diversi atenei italiani, non abbiamo paura di affermare che, per quanto non esente da molteplici e ben visibili difetti, all’interno del Dipartimento di Italianistica, Romanistica, Antichistica, Arti e Spettacolo dell’Università degli Studi di Genova (ebbene sì, pur non dicendolo l’allusione è quantomeno esplicita) è possibile un dialogo franco e sincero con i docenti e con i colleghi, da parte di studenti, dottorandi e assegnisti. Per quanto l’opinione dei docenti abbia un peso, giustamente, maggiore il parere di tutti viene preso in considerazione e nessuno subisce derisioni, ghettizzazioni o viene deliberatamente ignorato per snobismo. Pur nella non totale condivisione delle attività proposte e promosse dal Dipartimento, a nessuno è mai stata preclusa la possibilità di parteciparvi né ad alcuna persona è stato negato il diritto di replica o al contraddittorio, al contempo ricevendo, anche a detta dei più critici e polemici tra noi, aiuto e stimolo nel proseguire nelle proprie ricerche e nell’affinare la propria preparazione.
Non possiamo e non vogliamo dimenticare che molti docenti hanno dato tempo, competenze e passione per condurci attraverso questi anni di studi e che, seppur senz’altro qualcuno di meno “disponibile” si possa senz’altro trovare, è grazie a queste persone che oggi molti di noi affrontano il difficile mondo dello studio della storia dell’arte a livello professionale con passione, competenza e dedizione. Non da ultimo, ci rammarichiamo della posizione enfatica concessa ad un articolo che non esitiamo a definire scandalistico all’interno di quello che consideriamo il principale Giornale locale, anche in fatto di cultura. Ci piacerebbe infatti che la stessa importanza in termini di spazi fosse concessa anche alle attività che il Dipartimento, i suoi studenti e i suoi docenti propongono lungo tutto il corso dell’anno a riguardo del territorio cittadino e regionale e di cui, troppo spesso, compaiono solo brevi trafiletti decisamente poco accattivanti: pur nelle cogenti difficoltà che tutti possono vedere, nel mondo della cultura c’è tanto di BUONO, vi chiediamo, come organo di informazione fondamentale per questa Città, di fare anche la vostra parte per non alimentare polemiche sterili e per favorire invece l’arricchimento del confronto e il recupero del valore dei nostri tesori culturali.
 



martedì 26 marzo 2013

Se niente importa

Il Museo è un'istituzione permanente senza scopo di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo, aperta al pubblico, che effettua ricerche sulle testimonianze materiali e immateriali dell'uomo e del suo ambiente, le acquisisce, le conserva, le comunica e specificamente le espone per scopi di studio, educazione e diletto.
Statuto ICOM (1989)


Vorrei condividere una questione che mi sta molto a cuore: la situazione in cui versa l'Accademia Ligustica di Belle Arti, soprattutto per quanto riguarda l'istituzione museale.
Non so quanti di voi conoscano questo luogo straordinario, ospitato in uno splendido palazzo edificato da Carlo Barabino in Largo Pertini, ma spero di non essere banale delineandone le coordinate fondamentali. Istituita nel 1751 ad opera di un circolo di aristocratici che ritenevano necessario creare un centro per lo sviluppo di una scuola artistica ligure, l'Accademia si arrichì immediatamente di un patrimonio di opere donate dai suoi illustri fondatori e da moltissimi benefattori che ne scorgevano lo straordinario potenziale educativo e l'eccezionalità artistica. Eretta quindi per volere di privati, l'Accademia divenne poi nel 1939 Ente Morale patrocinato dallo Stato e dal Comune, condividendo perciò con tutti i genovesi e poi con tutti gli italiani il proprio tesoro artistico e formativo. Ancora oggi dalle sue aule escono giovani formati nelle arti decorative che contribuiscono a mantenere vivo il sempre più complesso ruolo dell'artista nella società.

Brevissime pillole, che certo non esauriscono l'argomento a riguardo di questa istituzione così importante per il territorio e da cui passarono grandi personalità come Girolamo Grimaldi, Nicolò Traverso, Giovanni David, Santo Varni, Giulio Monteverde e moltissimi altri. Quello che oggi accade in relazione all'Accdemia Ligustica è però sinistro e preoccupante: una improvvida gestione che ha mantenuto il museo chiuso sabato, domenica e lunedì e ha limitato le aperture dalle ore 14 alle ore 18.30 durante i restanti giorni feriali, ha fatto sì che il Museo scivolasse tra  le strutture meno visitate in tutta la Liguria, pur godendo di una posizione straordinariamente centrale. Da una fondamentale non conoscenza alla totale dimenticanza il passo è breve e ad oggi quasi il 75% dei genovesi, se interpellati riguardo l'Accademia, risponde mostrando di non sapere assolutamente di cosa si sta parlando. Risultato finale: Museo misconosciuto e buco nelle casse di oltre 2 milioni di euro.

Ed ecco che si arriva al nocciolo della questione: per "salvare" il Museo e la Scuola, mantenendo però lo status quo e apparentemente non intendendo sanzionare amministratori così "poco attenti" e rinnovare l'offerta di questo magnifico luogo valorizzandolo a dovere, si è deciso (molto ma molto dietro le quinte) di vendere parte delle collezioni ad un privato, nella fattispecie la Banca Carige. Per parlare di questa questione, mi permetto di riportare l'articolo di Anna Orlando, apparso sul Giornale dell'Arte, che tratta oserei dire magnificamente la questione. Fatevi una vostra opinione e poi, se volete, commentate. A mio parere non è ancora giunto il momento di gettare la spugna davanti a un atto che non esito a definire un vero e proprio sopruso, perpetrato da chi, come gli amministratori di Beni come questi, avrebbe invece il compito di tutelarli.


Opere in vendita per salvare la Ligustica.
“Segnale sinistro”, dice Settis, “rischia di allontanare collezionisti e donatori”.
Genova. Pubblichiamo in anteprima l’elenco completo dei dipinti che l’Accademia Ligustica di Belle Arti sta vendendo alla Fondazione Carige. Opere di Domenico Fiasella, Bernardo Castello, Giovanni Andrea de Ferrari, Giovanni Battista Carlone, Vincent Malò, Cornelis de Wael, Carlo Antonio Tavella: una bella antologia di pittura genovese e fiamminga del Seicento, la sua epoca aurea. La vendita è ora possibile perché il Consiglio d’amministrazione dell’Accademia ha cambiato lo statuto che prevedeva l’inalienabilità dei propri beni. Lo scopo è il salvataggio dell’istituzione, ammesso che la boccata di ossigeno finanziaria possa essere qualcosa di più di un temporaneo tamponamento delle perdite che mettono a rischio gli stipendi dei dipendenti e la vita stessa dell’Accademia e del suo museo. Si tratta dell’alienazione definitiva di 28 dipinti, per un valore complessivo di circa 2 milioni di euro. I prezzi sono stati stabiliti dal confronto tra una perizia commissionata dall’Accademia e una controperizia della Fondazione e possono essere ritenuti equi: non si tratta di un affare né di un “bidone”. Non è questo il punto. Lo Stato potrebbe porre il veto o esercitare il diritto di prelazione, ma non farà né l’una né l’altra cosa. “Stiamo ultimando le ultime procedure formali che consistono nell’informare chi avrebbe diritto, a norma di legge, di esercitare la prelazione”, spiega Franco Boggero della Soprintendenza per i Beni storici, artistici ed etnoantropologici della Liguria, che con il direttore regionale Maurizio Galletti ha seguito ogni fase della lunga trattativa, sotto un velo di silenzio a cui qualcuno ha tentato in vano di ribellarsi. Secondo Boggero non è un fatto particolarmente grave, poiché “le opere si spostano di pochi passi, dalle sale dell’Accademia, o dai suoi depositi, ai nuovi spazi della Fondazione da poco aperti al pubblico ogni primo giovedì del mese in Palazzo Doria dove sono già ospitati, in comodato, alcuni quadri dell’Albergo dei Poveri”. Ma in questo caso non si tratta di un comodato (una delle ipotesi suggerite da molti), ma di una vendita definitiva e vi è quindi chi ne sottolinea tutta la gravità. In primis Salvatore Settis, che, informato della notizia, dichiara: “Una collezione storica è molto più della somma dei quadri che la compongono: e questo lo sappiamo ormai da secoli. Salvaguardare i singoli quadri non basta, è necessario preservare l’integrità delle collezioni”. E nello specifico aggiunge: “La vendita dei quadri dell’Accademia Ligustica va in senso diametralmente opposto. E’ un segnale sinistro, anche perché viene da una città civilissima e con musei pubblici giustamente famosi”. Quale il ruolo dei mecenati in proposito? “Dalle fondazioni bancarie, il cui patrimonio si è costituito coi risparmi dei cittadini”, risponde Settis, “ci aspetteremmo liberalità in favore delle istituzioni culturali e non che contribuiscano alla morte delle collezioni. Se questo esempio verrà seguito, l’intero sistema italiano dei beni culturali precipiterà nell’abisso.” Perentoria, la sua opinione si aggiunge a quella degli studiosi locali. Piero Boccardo, direttore dei Musei di Strada Nuova, personalmente e da storico dell’arte si discosta dalla linea adottata dallo stesso Comune, che è uno degli Enti locali che siede al tavolo del Cda dell’Accademia insieme a Provincia e Regione, Boccardo aveva studiato già nel 2010 un’ipotesi di razionalizzazione espositiva di quadri e sculture, da integrare alle collezioni civiche. Ma è stato pressochè inascoltato. E’ riuscito solo a far togliere alcuni quadri dall’elenco delle opere in vendita, dimostrandone l’inalienabilità. Altre però, sono rimaste nella lista, pur essendo poco rispettoso venderle nei confronti di chi le aveva donate. “Per esempio il “Paesaggio” di Giuseppe Bacigalupo, regalato dalla figlia Rosa, anche lei pittrice, perché l’Accademia non aveva opere del padre, che era stato tra gli insegnanti più illustri dell’istituzione”, spiega Boccardo. Un caso analogo è quello dei due “Ritratti” di Joseph Dorffmeister donati dall’autore nel 1803 quando viene nominato accademico. Un atto di irriverenza nei confronti dei donatori, che secondo Boccardo, è privo di stile, come lo è la vendita della “Maddalena” attribuita a Stefano Magnasco, acquistata coi fondi del Comune nel 1830 proprio per incrementare le collezioni dell’Accademia. A queste osservazioni il direttore dei Musei di Strada Nuova esprime disappunto e delusione per come è stata condotta questa operazione, che riteneva gravissima: “Si intacca così l’integrità di tutti i nuclei storici di una raccolta che è nata per la città. Inoltre, se negli Stati Uniti può aver senso che un museo venda, così come ha acquistato, per l’Italia è diverso. Quello museale è un patrimonio che è di tutti, indipendentemente dalla natura giuridica dell’Istituzione.” Ben conscio dei problemi finanziari dell’Accademia, Boccardo afferma: “Se il Museo rappresenta un costo, si può anche ipotizzare una temporanea chiusura, piuttosto che vendere”. Inascoltati sono stati anche un gruppo di provati cittadini, costituitosi in un comitato nel novembre del 2011 capeggiato da Eugenio Pallestrini, presidente del Teatro Stabile di Genova. Tra i firmatari sono diversi collezionisti (Egidio Gaslini Alberti, Roberto Clavarino, Paolo Magiante, Giorgio Teglio), intellettuali (Valdemaro Flick, Giuseppe Marcenaro, Gianni Martini, Marco Sciaccaluga, Magù Viardo) e professori universitari (Alberto Beniscelli, Ezia Gavazza, Lauro Magnani, Marco Salotti). Tra loro anche Maria Clelia Galassi, docente di Metodologia della storia dell’arte dell’Università di Genova, che dichiara risentita: “La nostra nonè n’alzata di scudi contro l’Accademia, né contro la Fondazione Carige, ma la denuncia della gravità di una vendita di beni che sono pervenuti all’Accademia perché ha ricoperto storicamente, una funzione pubblica quando, nell’Ottocento, non vi era un museo civico. E’ gravissimo”, ribadisce la Galassi, “che si vendano opere che giungono dal territorio o da enti pubblici come il Magistrato di Misericordia, o donate da privati che sapevano che nello statuto dell’Accademia era prevista l’inalienabilità”. Il precedente desta inquietudini nell’ambiente intellettuale genovese e dovrebbe scuotere anche la cittadinanza. Collezionisti, appassionati d’arte, artisti, grandi e piccoli mecenati è probabile che ci penseranno due volte a donare qualcosa ad un museo. La Galassi centra il problema quando afferma provocatoriamente: “Con questo si apre una strada pericolosa. Se continuiamo a non scandalizzarci, domani l’Accademia potrebbe vendersi il suo capolavoro di Perin del Vaga! Perché no?”.
Anna Orlando

Che cosa ha venduto?
Domenico Fiasella, Ester e Assuero, 250 mila euro; Giovanni Battista Merano, Mosè bambino e la corona del Faraone, 200 mila euro; Luca Saltarello, San Pietro risana un paralitico, 180 mila euro; Giovanni Battista Carlone, Giuseppe riconosciuto dai fratelli, 150 mila euro; Giovanni Andrea de Ferrari, Abigail porta i doni a Davide, 140 mila euro; Bartolomeo Biscaino, Bacco ebbro, 130 mila euro; Carlo Antonio Tavella, Paesaggio con la Maddalena, 110 mila euro; Carlo Antonio Tavella, Paesaggio con frate cappuccino, 110 mila euro; Vincent Malò, Sacra famiglia con i santi Elisabetta e Giovannino, 90 mila euro; Stefano Magnasco (attr.), Maddalena, 90 mila euro; Giuseppe Antonio Petrini, Filosofo, 90 mila euro; Giuseppe Bacigalupo, Paesaggio con pescatori, 70 mila euro; Domenico Fiasella, Busto di giovane donna, 55mila euro; Giovanni Agostino Ratti (?), Santa Caterina Fieschi, 55 mila euro; Giovanni Battista Merano, Sant’Agostino Vescovo, 50 mila euro; Giovanni Agostino Cassana, Nido di piccioni, 50 mila euro; Domenico Piola (attr.), Riposo durante la fuga in Egitto, 40 mila euro; Joseph Dorffmeister, Coppia di Ritratti, 40 mila euro; Bernardo Castello, La vendita della primogenitura, 35 mila euro; Bernardo Strozzi (attr.), Figura femminile, 35 mila euro; Anonimo, Cena in Emmaus, 25 mila euro; Anonimo, Copia da Veronese, 25 mila euro; Cornelis de Wael, Paesaggio con Mosè, 20 mila euro; Anonimo, Paesaggio con architetture, 15 mila euro; Cesare Corte, Maddalena, 15 mila euro; Anonimo, Catone, 5 mila euro; Anonimo, San Pietro, 3 mila euro.

venerdì 4 gennaio 2013

L'alibi di satana

Chiamare certa gente "satanisti" fa comodo a tutti. Alla fine dei conti chi siamo noi, miseri mortali, per impicciarci delle questioni del maligno? Chiamarli semplicemente vandali invece, oltre a togliere quell'aura di mistico potere malvagio, richiama all'ordine ben più di un responsabile (Comune, Soprintendenza, proprietari stessi) che dovrebbe tutelare quelle che oggi sono ormai le spoglie di Villa Piuma. Se c'è qualcosa che traspare dai graffiti e dalle scritte lasciate dai "visitatori indesiderati" sulle pareti dell'edificio non è certo l'inclinazione verso pratiche diaboliche, se mai è una certa imperizia nell'uso di vocaboli triviali della lingua italiana e una dubbia qualità grafica che suggerirebbe di intensificare i corsi di ornato nelle scuole dell'obbligo, tanto da avere, per lo meno, atti vandalici "artistici". Ancora meno "satanico" appare l'atteggiamento verso l'intero complesso architettonico: non so se il diavolo abbia l'uso di smontare pezzo per pezzo i luoghi in cui poggia il piede (o lo zoccolo), ma i suoi presunti seguaci senza dubbio si sono dati un gran da fare sotto questo punto di vista. Al decadimento apportato dall'incuria e dagli agenti atmosferici (importante è infatti il danno causato da un parziale crollo del tetto che ha denotato cospicue infiltrazioni d'acqua nelle volte), si sono aggiunte distruzioni sistematiche e quasi totali di qualunque elemento presente nella struttura, per arrivare, infine, anche al sollevamento delle lastre dei pavimenti o all'abbattimento di muri, quando non allo scavo di voragini nel suolo stesso della villa.

Ecco dunque il risultato di anni di abbandono e del "non voler vedere" il problema del vandalismo da parte delle autorità competenti che, lo ricordo, hanno il DOVERE di vigilare sullo stato conservativo di un bene vincolato (e villa Piuma lo è) nonostante esso appartenga ad un privato. Anzi, la legge prevede che qualora il proprietario stesso non sia in grado di gestire quel determinato bene storico-artistico, l'organo competente dovrebbe intervenire per tutelarlo, arrivando in casi estremi anche alla diretta presa in gestione del manufatto.

Invece come al solito tutto tace: la villa è misconosciuta dai genovese e "mitizzata" come luogo "malefico" dagli abitanti locali (e da alcuni siti internet), tanto che gli unici frequentatori sono i vandali-satanisti, i giocatori di Soft-air e (ultimamente) una troupe di fotografi (!!!); la famiglia proprietaria langue in uno stato di empasse dovuto ai più che tradizionali screzi nobiliari interni; il Comune credo che non sappia neppure della sua esistenza; la Soprintendenza...che cosa sarebbe questa "Soprintendenza"????
Risultato della conta, a nessuno importa cosa succede alla villa. Genova perde un ennesimo simbolo di un ideale di bellezza che se in passato fu dei "pochi" (gli aristocratici che a suon di palanche si facevano erigere magnifici palazzi), oggi potrebbe e dovrebbe essere di tutti: Villa Piuma gode di una vista straordinaria (forse unica) sulla val Polcevera che spazia sino al mare, a quindici kilometri di distanza, senza essere ostacolata neppure dalle oscenità oggi costruite per imbruttire e soffocare il lungo-fiume. Avrebbe potuto essere un luogo piacevole per i ragazzi e le famiglie, un albergo, un ristorante, un museo, un ostello, un centro benessere, una casa di qualcuno che volesse occuparsene, ma non è stata, non è e non sarà nulla di tutto questo.
Aspetteremo che il tempo passi, che i satana vari completino in vece nostra l'opera di demolizione e quando le sue finestre non saranno che orbite vuote affacciate sul mare e sui monti liguri potremo dire, tutti in coro d'amore e d'accordo, che oramai è troppo tardi per salvarla. Oggi, adesso, quando ancora qualcosa per salvare questo luogo che se non artisticamente è straordinario paesaggisticamente, si potrebbe fare, nessuno ha voglia di sapere in che condizioni si trova. La conoscenza implica la responsabilità, e la responsabilità è una questione troppo, troppo scabrosa e faticosa per essere affrontata.
Dopotutto, l'alibi di satana non è così male come copertura no?


Appendice.

Dal momento che online troverete solo notizie di Villa Piuma a riguardo di messe nere, profanazione di tombe o racconti risibili su congiure demoniache legate ad atroci sacrifici umani del passato, vi lascio semplicemente alcune notazioni storiche sul'edificio stesso, che è stato effettivamente ben poco studiato.
Edificata nei primi decenni del XVIII secolo per la famiglia Pittaluga, la villa passa nelle mani della famiglia Piuma nel 1812, per rimanervi sino ai giorni nostri. La struttura della villa si qualifica come legata al tradizionale volume rettangolare tipico dell'architettura genovese, presentando sul fronte un atrio al piano terreno con tre grandi aperture, vicine alla concezione introdotta dall'Alessi nel XVI secolo. Ben diversa è però la monumentalità del costruito, che non presenta logge o spazi aperti, ma una solidità e compattezza estreme, scandite solo dalle aperture delle finestre e dal fregio marcapiano che separa il piano terra dal piano nobile. Gli spazi interni originari furono rimaneggiati alla fine del XIX o all'inizio del XX secolo dai Piuma, che  ampliarono il parallelepipedo della villa con l'aggiunta di alcuni volumi sul retro della stessa, inglobando molto probabilmente anche la cappella, che fino ad allora era con tutta probabilità un volume separato. Invariati rimasero il grande e luminosissimo salone del piano nobile e in generale tutti gli ambienti sul fronte dell'edificio, mentre sul retro vennero inseriti due piani ammezzati e alcune scale di servizio per far fronte al numero di "abitanti" della villa che doveva essere cospicuo nei periodi di utilizzo intenso.
Degno di nota è l'atrio voltato, delimitato da due coppie di colonne ioniche binate su cui insistono archi a tutto sesto, mentre la decorazione degli spazi interni, sebbene molto presente, è di matrice tardo ottocentesca se non novecentesca (specialmente l'ambiente della cappella) con raffigurazioni ad affresco di carattere floreale e a grottesca e non sembra degna di particolare rilevanza artistica. Di incredibile pregio è invece la vista che si gode dal salone del piano nobile, potendo far spaziare lo sguardo su tutta la val Polcevera giungendo sino al mare, comprendendo nel campo visivo ai lati sinistro e destro sia i forti di Genova che il Santuario della Madonna della Guardia. Grande rilevanza dovevano avere anche le essenze piantate nel giardino antistante la villa, a partire dai grandiosi cedri centenari che ancora svettano nello spiazzo oggi invaso dai rovi. Resta ancora leggibile, sebbene fortemente compromessa, la strada di accesso carrozzabile e pergolata che conduceva dalla casa del custode sino allo spiazzo antistante la villa: ne rimane il tracciato tipicamente sinuoso a tenaglia attorno allo spazio del parterre centrale e la serie di piloni tra cui si intravede un vialetto ciottolato.


Atrio al piano terreno, chiuso da coppie di colonne binate a formare una atipica serliana
I capitelli in stucco quasi totalmente distrutti dalle mani dei vandali

L'atrio, come si presentava nei primi decenni del XX secolo (fonte: Le ville del Genovesato)

Soffitto voltato e decorato a fresco con pesante cedimento della struttura portante

Soffitto voltato e decorato a fresco con decorazione del XX secolo


Canocchiale visivo della Val Polcevera sino al mare, godibile dal salone del Piano Nobile

Altare della cappella completamente distrutto dai vandali 

Fronte della Villa



Fronte della villa visto dalla parte bassa del giardino

Angolo occidentale della villa dall'arrivo dell'antica strada d'accesso

Lato occidentale della villa. Si noti l'allungamento del tetto verso la parte posteriore, dovuto all'ampliamento voluto dai Piuma nel XX secolo.


Interno della Cappella.

Resti del grande camino di uno dei salotti del piano nobile

Particolare del fregio marcapiano

Il ninfeo sul retro della villa privato della statua che lo ornava e sommerso dalla vegetazione


Ciò che resta della biblioteca e dell'archivio Piuma




lunedì 10 dicembre 2012

La Cultura del "precotto"

Ricordo bene, come se fosse oggi, che quando avevo circa dieci anni a scuola si scatenò un putiferio. Ai genitori era giunta difatti voce che alla mensa scolastica (alle elementari facevo due pasti a scuola, il martedì e il giovedì) d'ora in avanti sarebbero stati serviti cibi precotti. Per non meglio specificate "necessità contrattuali" (quindi tradotto "spendere meno palanche") non era più possibile affidarsi all'attuale ditta che pagava le nostre amate cuoche e tutti i materiali necessari per cucinare un pasto per 200 studenti. Meglio il precotto, no? Basta cuochi, basta cucine, non sporca, se avanza si usa la prossima volta: abbatte i costi e abbatte gli sprechi.
Beh io precotti non ne ho mai mangiati, per lo meno a scuola in quegli ultimi due anni di elementari. I genitori, giustamente indignati per queste considerazioni che facevano pagare alla qualità del cibo dei loro figli alcune "limate" al bilancio dell'istituto, fecero l'impossibile ed imposero quasi al Direttore e al Consiglio scolastico di ritornare sui propri passi. Questo però ormai diciotto anni fa.
Ad oggi il precotto è all'ordine del giorno: mense scolastiche, mense aziendale, bar, fast food, pseudo ristoranti a prezzi popolari, addirittura cene plug and play per inchiappati dei fornelli o raffinati frettolosi. Osannato dalla pubblicità, decantato dai palati più fini, l'essere "cotto a priori" non ne denota più la caratteristica di "scarsa genuinità" che tanto aveva allarmato i nostri zelanti genitori, in anni certamente meno abituati al "fast food" di quelli in cui attualmente viviamo. Come il cibo abbiamo tra l'altro cominciato a precuocere tutto: le vacanze sono precotte, acquistabili in pacchetti prestabiliti che non implicano neppure la fatica di capire dove vuoi andare, basta puntare il dito a caso sull'offerta migliore, pagare, fare la valigia e aspettare che il "tour" finisca. La comunicazione è ulteriormente precotta: all inclusive, relax, io-te-noi-voi tutti Gratis. Neppure devo guardare l'offerta migliore: non devo neanche PENSARE, solo telefonare, telefonare, telefonare, navigare, chattare, scaricare. LORO pensano a tutto, anche a scegliere il telefono che funziona meglio per TE, ti consigliano la TUA tariffa ideale e via. ALL inclusive. Comunicazione precotta e servita, ancora calda. Divertirsi è precotto: cinema, sport, teatro. Per una modica cifra puoi avere TUTTO, senza rinunciare a NULLA. W il precotto! W il tutto! 

Abbiamo precotto la scuola: meno materie, insegnanti riciclati e molto spesso sfruttati senza certezze, nessuna stabilità di programmi e di qualità educativa. Una "mensa" educativa sempre più affollata e meno alta qualitativamente, dove la maggior parte degli avventori si accontenta di essersi in parte riempito lo stomaco, senza neppure sapere di cosa. Abbiamo precotto le Università, simbolo di eccellenza e di alta formazione: piani di studio take away, utili a riempire le tessere a punti dei crediti per vincere la pirofila (laurea) finale. Ma che cosa importa? Abbiamo diffuso la cultura no? Abbiamo dato da mangiare a più persone, a meno prezzo e con il risultato di riempire la pancia a tutti. Sì, è vero, ma con cosa?

Il precotto non è un cibo scadente, ma non è un cibo fresco. E' conservato, scaldato e servito, orfano di qualcuno che lo confezioni con cura sul momento, figlio di una catena di montaggio anonima e priva di personalità. Abbiamo trasposto con grande nonchalance questo processo, che fino a poco tempo fa faceva inorridire i nostri parenti, dal cibo alla nostra cultura. Così per esempio le mostre che dovrebbero essere fonte di arricchimento e conoscenza, per le opere esposte e per i cittadini che hanno occasione di fruirne, sono diventate degli show di masterpieces, privi di nome e di valore proprio perchè straordinariamente noti a tutti. La mostra viene visitata perchè tutti sanno cosa vedranno, ci vanno per quella o quell'altra "grande opera", la conoscono, sanno chi l'ha fatta, appare su tutti i cartelloni pubblicitari. E' un'esposizione del noto, del conosciuto. Del precotto. Il ragionamento che ci sta dietro sembra esattamente quello che fece, ai tempi suoi, il Direttore della mia scuola elementare: perchè mantenere qualche storico dell'arte a fare ricerche sulle opere da esporre o sul periodo da trattare? Perchè consultare un architetto o un designer per rendere accattivante, ideale, confortevole l'esposizione? Perchè lavorare su una pubblicità efficace e bella? Chiamiamo un personaggio che abbia tanti contatti, mi porta un Caravaggio, un Van Gogh, un Monet e la gente verrà a frotte! Poca spesa, tanta resa. Peccato però che parlare di cultura non abbia granchè a che fare con le modalità di cucinare un piatto di maccheroni per una scolaresca, per quanto importante questo possa essere.

Non voglio trarre una conclusione, perchè sarebbe solo amara e di amarezza non abbiamo proprio bisogno.
Negli anni dei tagli, della dimenticanza del bene, del vero e del bello vorrei solo che ci riconoscessimo troppo legati ad un mondo che corre troppo in fretta e troppo lontano, estraniandoci dalla consapevolezza della nostra ricchezza culturale e spirituale, dalle nostre radici e da ciò che può renderci felici e orgogliosi.
Un mondo che punta a precuocerci la vita, dicendo come, cosa e perchè dobbiamo credere, pensare e fare.

Vorrei che fossimo come quei genitori (tra cui i miei, che non ringrazierò mai abbastanza) che non si piegarono a far mangiare ai loro figli dei cibi precotti: uniti, consapevoli e pronti a lottare per ciò che riteniamo importante per noi e per le future generazioni.

giovedì 22 novembre 2012

C.V.D. Come Volevasi Dimostrare.

http://genova.repubblica.it/cronaca/2012/11/22/news/via_aurea_rester_a_vista_l_antico_selciato_ritrovato-47205597/

Ed ecco che, con spiccata abilità profetica, si palesa all'orizzonte esattamente il quadro che mi ero figurato.
Mi domando se i "plebisciti" via Facebook siano un bene o un male. Per come la vedo io le strumentalizzazioni di massa e le "crociate" senza prese di coscienza sono quanto di più deleterio si possa ottenere dalla comunicazione odierna, soprattutto su un tema delicato come quello del patrimonio culturale.

Tremo al pensiero di ciò che sarebbe successo al "Giudizio universale" di Michelangelo se, al suo tempo, i sistemi "plebiscitari" per decidere se il grandioso affresco dovesse essere conservato o distrutto perchè troppo licenzioso fossero stati facebook, twitter o internet in generale come oggi.

Quasi sicuramente oggi ne avremmo notizia solo dalle fonti. Meditate gente, meditate prima di lanciarvi in "imprese" conservative che in realtà non sono che specchi per le allodole, usati per distogliere l'attenzione dalle reali e gravi problematiche del patrimonio genovese e ligure.

martedì 20 novembre 2012

Respice finem. Questione di punti di vista.


"Eccezionale. Dopo anni di ricerche e di studi finalmente gli sforzi congiunti di archeologi, storici dell'arte ed architetti hanno dato i frutti sperati. E' accaduto qui, a Genova, dove è venuto alla luce, sotto cinquanta centimetri di oscena e deturpante pavimentazione ottocentesca composta da selciato, sabbia e pietrisco, l'originale e magnifico ciottolato che pavimentava Strada Nuova a metà del 1500, anni della sua realizzazione. Lo straordinario ritrovamento ha subito messo in moto la macchina della tutela, che ha raccolto adesioni ed entusiasmi da ogni angolo: social network, giornali, singoli cittadini hanno cominciato a proporre soluzioni conservative ed espositive per il monumento che è ormai considerato testimonianza irrinunciabile e significativa dell'identità e della cultura dei cittadini. Chi propone una grande lastra trasparente per permettere a tutti di calcare ancora "virtualmente" gli antichi ciottoli sui quali, chissà, avrà forse posato la sua suola anche il pittore Luca Cambiaso o il fiammingo Pieter Paul Rubens; chi invece invoca un distacco e una musealizzazione più "ragionata" per meglio comprendere l'entità del manufatto e della sua importanza come testimonianza del grande "siglo de los genoveses". La soprintendenza ancora non ha proferito verbo, ma qualche voce di corridoio parla addirittura di un "Museo della Strada", che avrebbe come opera centrale e catalizzante proprio il ritrovamento epocale dei giorni scorsi."

Ecco, il tenore delle notizie che circolavano attorno a quello che a tutti gli effetti è stato uno "scavo" per motivi di gestione dei servizi pubblici (acqua, luce, gas), era senz'altro riassumibile come toni e come consapevolezza in qualche riga come quelle che ho provato, ironicamente, a scrivere io. Quello che è successo a Genova è molto banale in realtà: per l'ennesima volta hanno alzato il selciato di via Garibaldi, stavolta qualcuno se l'è data che quelle pietre tutte vicine non potevano essere lì per caso e "hip hip urrà" è uscita "l'antica via Aurea", secondo quanto starnazzavano tutti come le oche del Campidoglio a destra e a manca. Il passo dallo starnazzo alla concione è, si sa, molto breve e così in men che non si dica Facebook era popolato di grandi teorici della conservazione dei beni artistici, di grandi interessati alla "storia e cultura della propria città", alle "testimonianza preziose di un nobile passato". Chi sentenziava che è imprescindibile una finestra sul "pavimento" dell'attuale strada per poter ammirare l'abilità con cui i genovesi del XVI secolo giustapponevano le pietre, alla ricerca della perfezione e dell'equilibrio Rinascimentale; chi invece imponeva "ex cathedra" che subito si ponesse l'antico manufatto in un bel museo, in modo "che tutti possano ammirarlo"! E che diamine, vorrete mica privarci della NOSTRA via Aurea?? Noi, gli indefessi difensori della difesa di Genova città della cultura, dell'arte e della coscienza civile? Ma siamo pazzi? Stiamo forse scherzando? Chi è il folle troglodita e bifolco che oserebbe ancora porre terra e pietre sui sublimi conci sbozzati forse dalle diafane mani di Bernardino Cantone o (non oso neppure scriverlo) Galeazzo Alessi???
Bene, forse il troglodita e bifolco dimostrerebbe più sale in zucca di voi, amanti dello scoop, interessati da TG in edizione straordinaria, elettori di Obama e astenuti in Italia.
Pensate che una lastra di vetro o il confino (perchè è di confino che si tratta, non di esposizione) in una sala di un Museo sarebbero uno strumento utile a valorizzare il nostro misconosciuto e bistrattato patrimonio? Mi dispiace, eroi, sarebbe troppo facile: questi scoop, queste vittorie facili, questo "patrimonio diffuso", questa "tutela immediata" sono solo lo strumento per lavare la coscienza lurida di una Città che vive un'amnesia culturale quasi irreversibile, facendoci sentire tutti più "culturalmente impegnati" senza però impegnarci sul serio. Insomma è come fare le domeniche senza auto per far finta di essere un Comune amico dell'ambiente quando si taglia tutto il tagliabile sul trasporto pubblico, incentivando così quello privato con conseguente impennata del relativo inquinamento.

Noi NON abbiamo bisogno di altre lastre di vetro per terra. Mi bastano quelle di Santa Fede, quelle del porto antico e quelle che neppure ricordo perchè nessuno si è mai degnato di dirmene il significato e quindi per me e per tutti non vogliono dire nulla. Genova NON ha bisogno di un'altra sala di museo con l'ennesimo pezzo di pietra, eredità di chissachì, le bastano le sale (vuote) del Museo Diocesano, quelle (deserte) dell'Accademia Ligustica, la desolazione del Museo di Storia Naturale Giacomo Doria, le sue Ville dimenticate, le chiese deserte e semi abbandonate, la Basilica di Carignano e Villa Gustiniani Cambiaso, monumenti alessiani che crollano nell'anno alessiano (ironia del destino), l'Albergo dei Poveri - novella reggia del degrado organizzato.

Noi e Genova abbiamo bisogno di conoscere, amare e POI valorizzare (con consapevolezza quindi) il nostro patrimonio. Abbiamo bisogno di scoprire il piacere di riconoscere luoghi, valori, monumenti, capolavori, semplici "eredità" e testimonianze del passato che sono nostre per diritto, ci qualificano e ci rappresentano e in qualche modo sono anche il nostro biglietto da visita nei confronti di chi a Genova ci viene per turismo o per lavoro. Bisogno di senso civico, di responsabilità condivisa del NOSTRO patrimonio, perchè è venuta finalmente l'ora di smettere di demandare ad altri gli obblighi di tutela e valorizzazione: è il NOSTRO turno, quello di noi cittadini, di noi studenti, di noi "esperti" storici, storici dell'arte, geografi e letterati, di restituire agli occhi e ai cuori di tutti una città viva, frizzante e capace di esprimere un sincero coinvolgimento della sua gente.
Tutto questo però ha un prezzo, che è quantificabile nel voler fare le cose per bene, nel rischiare un investimento nella nostra promozione culturale puntando su giovani capaci ed entusiasti e non su dinosauri con il petto troppo pesante da un medagliere esageratamente folto. Un rischio però che sarebbe inevitabilmente ripagato cento volte tanto, creando quella circolazione di idee, eventi ed attività socio-culturali (concerti, conferenze, dibattiti, visite, tour guidati, mostre, aperitivi, feste....tutto -nei limiti- è lecito) che sono il motore delle attività commerciali, dell'immagine "pubblica" (e quindi turistica) della città e dei suoi abitanti. Si sa però, come ho detto, che una delle inderogabili leggi del mercato è che senza investimento, non ci può essere guadagno ed è questo il GIGANTESCO errore che l'Italia (ma un po' tutta Europa) sta commettendo: smettere di investire, tagliare solo in maniera brutale significa risparmiare un euro oggi, ma non riguadagnarlo mai più in futuro. Rendendoci però conto di questo processo erroneo e distruttivo si ha l'imperativo morale ed intellettuale di reagire: Genova come città può investire su se stessa, può proporsi come esempio virtuoso uscendo da una dinamica che potrebbe essere, se non fermata, catastrofica in breve tempo. Comprendere questo tipo di idea e farsene interprete dovrebbe essere l'obiettivo di ogni buona amministrazione che non mira al pareggio di bilancio gettando i libri contabili dalla finestra, ma che gioca il suo futuro sulle qualifiche, sulla volontà di fare bene e di crescere confrontandosi con la realtà presente (non passata) di un mondo delle cultura sempre più internazionale e multimediale, dove la COMUNICAZIONE è prerogativa indispensabile per dialogare efficacemente con le persone. BASTA eventi dove si trovano sempre le stesse 10 persone, BASTA personaggi incapaci che solo per aver pubblicato qualche libro amministrano istituzioni di cui non sono manifestamente in grado di promuovere il compito e l'importanza sul territorio, BASTA cultura-evento, mercificata come i prodotti in offerta al carrefour. BASTA, di queste cose NON abbiamo bisogno. I musei devono essere poli di dialogo aperto, centri di aggregazione, capaci di coordinare le iniziative sul territorio, non di reprimerle con gelosia e meschinità e così (ancora di più forse) dovrebbe fare la soprintendenza, organo preposto alla tutela dei beni, che oggi è una figura quasi più mitica del mostro di Lochness in quanto ad avvistamenti sul territorio. Sensibilità al mondo giovane, coinvolgimento attivo di scuole ed università, puntare ad un TARGET ALTO, non al minimo indispensabile per scimmie decerebrate, tanto per "tirare avanti". INVESTIMENTO (anche minimo all'inizio magari, ma minimo è sempre più di niente), SVECCHIAMENTO e innovazione, COMUNICAZIONE efficace e OBIETTIVI ALTI e ben delineati, sono a parer mio gli ingredienti per una città culturalmente vincente, capace anche di "mangiare" con la cultura, perchè no? Alla faccia (brutta) di Tremonti e di Bondi.

In conclusione, ricopriamola via Aurea. Non mettiamo vetri che non puliremo mai, non musealizziamo oggetti che non andremo mai a vedere. Il nostro patrimonio è ricchissimo e variegato, investiamo tempo, denaro ed affetti su ciò che possediamo. Sarà la strada per poter, in futuro, guardare a quel ciottolato con occhi più consapevoli.